La chiesa e abbazia di San Domenico
Domenico da Foligno (951-22 gennaio 1031), predicatore e promulgatore di un modello monastico riformato già in Umbria e in Abruzzo, fondò – secondo la tradizione – nel 1011, ma più verosimilmente tra il 1021 e il 1025, la chiesa e l’annesso monastero benedettino a lui intitolati, ove terminò i suoi giorni. Come attestato dall’agiografo cassinese Alberico, la presenza delle spoglie di san Domenico, conservate nella cripta sottostante l’altare, diede origine sin dalla metà dell’XI secolo ad un intenso pellegrinaggio; le conseguenze della diffusione del culto, oltre a manifestarsi sul piano devozionale, sono evidenti nel numero elevato di donazioni dei fedeli e di concessioni di privilegi e protezioni. La consacrazione ufficiale della chiesa e del monastero avvenne il 22 agosto 1104, quando papa Pasquale II visitò la diocesi di Sora e ratificò la fondazione della comunità monastica. Diversi furono inoltre i pontefici che, nel corso del Medioevo, confermarono e arricchirono di ricchi possedimenti il cenobio benedettino, da Urbano II (1088-1099) a Innocenzo III (1198-1216). Tuttavia, le ingenti ricchezze di San Domenico e l’autonomia di cui godeva il monastero condussero, dalla metà del XIII secolo, ad una crescente decadenza morale all’interno della comunità sorana. Nonostante i frequenti richiami, nel 1222 papa Onorio III emanò la Bolla d’Oro, convalidata dall’imperatore Federico II, con la quale il monastero veniva privato di ogni autonomia e sottomesso all’autorità spirituale e patrimoniale dell’abbazia cistercense di Casamari, inizialmente sorta come comunità benedettina dipendente da San Domenico e poi, dopo l’adozione della regola cistercense, consacrata nel 1217 da Onorio III stesso. L’entrata della regola di Cîteaux in San Domenico ebbe anche rilevanti riflessi artistici e architettonici sulle preesistenti strutture - improntate sullo stile benedettino-cassinese diffuso nell’area abruzzese e alto-campana - che perciò furono aggiornate al nuovo gusto gotico-cistercense (fig. 2): espressioni di tale rinnovamento sono, tra i vari esempi, i capitelli a crochet e a foglie d’acqua nella cripta (figg. 3-5) e uno dei pilastri del portico antistante la facciata. Il XIV secolo significò per San Domenico una fase di acuta crisi originata dal decadimento morale e materiale dell’abbazia di Casamari, divenuta insolvente e incapace, con i vari ospizi, di soddisfare appieno i bisogni della popolazione indigente; grazie però a cospicue donazioni elargite nel corso del Quattrocento e ai richiami dalla Santa Sede, le due fondazioni ritrovarono serenità e splendore artistico. Dopo un lungo periodo di chiusura per l’interdizione al culto nel 1653, i danni causati dal terremoto del 1654 e la devastazione delle truppe francesi, fu riaperta nel 1834 e sottoposta a lavori di ricostruzione dalla metà del sec. XIX, reimpiegando – come già nelle prime fasi costruttive del complesso e come accadde per altre abbazie benedettine - l’abbondante materiale proveniente dall’area monumentale funeraria che si estendeva in questa zona fra il I sec. a. C. e il II d. C. Risale a questo periodo la sostituzione della scalinata centrale con due scale laterali e una nuova sagoma in stile tardo barocco della facciata. L’aspetto, documentato da vecchie fotografie, mutò in seguito ai lavori di restauro successivi al terremoto del 1915 che compresero, oltre che il rifacimento della facciata, anche la sostituzione della copertura a volta con quella a capriate, in linea con lo stile neogotico diffuso nel periodo, la demolizione delle due scale d’accesso al presbiterio, la costruzione di una scala centrale, la pavimentazione, il rafforzamento dei pilastri, le porte lignee scolpite da motivi neogotici e confrontabili con altri esempi nel territorio (recentemente sostituite da battenti di bronzo) e la decorazione della cripta.
L’antico materiale architettonico ed epigrafico, prevalentemente a carattere funerario, fu prelevato dalla necropoli che si estendeva nelle immediate vicinanze, a margine della via publica, l’asse portante della centuriazione dell’ager Soranus e presso uno snodo viario importante per Fregellae e Cereatae, testimoniato da un cippo miliario degli inizi del sec. IV d. C. (fig. 6); non è distante l’arcata superstite di un ponte romano in opera quadrata, risalente al II sec. a. C., posto sul tracciato della strada romana.
All’interno e all’esterno del complesso abbaziale si distinguono quattro fregi dorici con rilievi floreali e rituali, sette fregi continui con rilievi di armi (figg. 7-12), provenienti dalle tombe dei militari di stanza a Sora dopo la deduzione coloniale della seconda metà del I sec. a. C. e pertinenti a monumenti funerari di tre tipologie: ad altare, “a dado” (di cui un esempio è ancora in situ), e a tamburo circolare, di cui restano le zoccolature curvilinee, modanate o decorate da kyma ionico su cui poggiano le absidi (fig. 13).
Altri materiali di diversa provenienza ed epoca furono reimpiegati nella costruzione della chiesa; si notano gli stipiti delle porte, decorati dal rilievo di scene della raccolta di olive e della vendemmia e da elementi a dentelli e ovuli, e alcuni torcularia (blocchi per la spremitura delle olive); la cripta poggia su capitelli e colonne di diversa epoca e funzione.
Questo luogo è anche parco letterario: qui nacque nel 106 a. C. Marco Tullio Cicerone, che descrisse nel De legibus, II, 1, 1- 3; II, 2, il luogo dove sorgeva la casa avita: per lui nulla era più ameno di quell’isola che gli sembrava il rostro di una nave che divideva in due il Fibreno, prima che il fiume confluisse nel Liri rendendolo molto più gelido. Nell’Epistulae ad Quintum fratrem, III, 1, 3, l’Oratore parla con piacere della frescura conferita al luogo dalle acque del fiume e della bellezza della villa, che chiama amaltheum; in un passo dell’Epistulae ad Atticum, XII, 12, scrive che dell’isola vorrebbe farne un giardino, considerandola quasi il sacrario della sua famiglia. Ben poco di quanto è rimasto nell’area del monastero di San Domenico è però riconducibile ad una struttura abitativa, ad eccezione di frammenti in opus musivum e di murature non ben identificate, di cui si ha solo notizia indiretta, e dei torcularia già menzionati. Anche i viaggiatori del Grand Tour, che nei secoli passati si erano inoltrati nel fascinoso Latium adiectum, vi giunsero per visitare questo luogo così ricco di suggestioni letterarie e storiche: in particolare, l’Hoare, che lo descrive nella sua opera A Classical tour trough Italy and Sicily, edita a Londra nel 1819, e il Kelsall, che nel suo diario di viaggio Classical excursion from Rome to Arpino, pubblicato a Ginevra nel 1820, raffigura le rovine qui esistenti (figg. 14-15), propone di monumentalizzare l’area in onore di Marco Tullio Cicerone e fa scolpire a ricordo della sua visita un’iscrizione commemorativa prima infissa nel suolo all’estremità orientale dell’insula Fibreni e oggi murata all’interno della chiesa di San Domenico nel muro del transetto di sinistra (fig. 16), con cui invita a considerare che qui è nato il grande retore e politico, il fondatore del pensiero occidentale e soprattutto dell’idea di Europa. Il testo dell’iscrizione è: Siste viator/[si tibi un]quam placuerunt profueruntq[ue]/[Arpinae?] chartae venera[re] incunabula/Marci Tullii Ciceronis/[et ha]nc insulam Fibreni ubi ipse officiis/[senat]oriis negotiisque forensibus solutus/[philo]sophia sublimi amicorum coetu/ruris amoenitate/ animum ingentem reficere/consuevit/Car(olus) Kelsall/Anglus/de sua pec(unia fecit)/ MDCCCXVIII.
(A cura della Prof.ssa Alessandra Tanzilli)